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"Essere bambino a Priverno intorno agli anni Cinquanta era in fondo una condizione di privilegio. La maggiore libertà di cui un bambino allora godeva era quella del dialetto: una lingua concreta, strettamente connessa alla realtà che andava nominando, mantenuta in vita da oggetti e azioni vivi e vitali, una lingua padroneggiata in tutte le sue sfumature per cui si sapeva bene quando usare ajecco, ajessi, alloco, oppure abbassarze, accuccuarze, 'nculufuzzarze o ciammaruche, ciammotte, macochi. Il dialetto, come il paese, era terra stanziale e insieme di conquista, certezza dell'essere e libertà di ricerca, bene posseduto e spinta all'arricchimento..."